Tutta la verità sull’Autostima
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Halloween è una festa molto discussa, ma che ormai è diffusa anche da noi. Tra i vari aspetti che caratterizzano la notte stregata, ne troviamo uno che accomuna tutti: Halloween è un buon motivo per far festa. Voglio usare, invece, Halloween per porre l’attenzione su una riflessione: come affronti i tuoi mostri?
Tendiamo spesso a considerare la paura come un qualcosa da sconfiggere e mantenere lontano da noi stessi, ma non sempre in realtà questo atteggiamento è il più opportuno. La paura, infatti, è una delle emozioni primarie che abbiamo, è innata e comune a tutte le specie viventi in quanto è utile alla sopravvivenza. Sotto forma di prudenza, ci aiuta, ad esempio, a non compiere sciocchezze e ad evitare di agire in maniera avventata. La paura insomma, se nella giusta dose, è un antidoto alla morte: certo il problema si pone quando il meccanismo della paura si “rompe” e quella che è una emozione naturale e sana diventa persecutoria e paralizzante. La paura nemica è quella che immobilizza e rallenta eccessivamente, facendoci dare il peggio di noi stessi e boicottando pertanto i nostri desideri.
L’atteggiamento più comune con cui affrontiamo la paura è il meccanismo di evitamento, cioè si evitano le situazioni che ci fanno paura, trovando escamotage di diverso tipo. Spesso però, questa è una strategia che funziona solo a darci un sollievo momentaneo. Questo atteggiamento, in effetti, permette di non entrare in contatto con quanto ci fa stare male, ma la sua reiterazione nel tempo è strettamente connessa con l’incapacità di preservare la propria autonomia e indipendenza.
Ecco che quindi può essere utile guardare in faccia anche a ciò che non ci piace, ciò che ci farebbe spostare lo sguardo altrove, evitando di affrontare la situazione: la parte scura di sé, le ferite, gli scheletri. E’ un lavoro molto duro, d’altra parte il coraggio non esiste in natura, gli animali agiscono spinti da bisogni e pulsioni, mentre imparare ad andare verso le difficoltà non è spontaneo e naturale: il corpo e la mente cercano di tenerci ben lontani da queste. Il coraggio è un’abilità che si conquista sconfiggendo la paura, affrontandola, guardandola in faccia, mentre fuggire da essa significa darle un grande potere e farla diventare più grande di quello che è. Si acquisisce con l’esperienza, e con la consapevolezza di voler vivere appieno, allenando “questo muscolo”, ripetutamente, a partire dalle piccole cose. Non è una scelta facile, ma può dare enormi frutti.
Pensiamo a uno sportivo, come un pugile, un difensore o portiere nel calcio, a chi deve fermare una schiacciata in ricezione a pallavolo, o una bomba lanciata a tennis. Per riuscire a gestire questi colpi violenti deve per forza guardarli, non può girarsi, o non saprà come prenderli e fallirà. E’ una questione di attimi, di frazioni di secondo, e non si tratta di decidere al momento, ma si tratta di acquisire pian piano un atteggiamento particolare: l’atteggiamento di chi non si volta. Tutti questi sportivi, in realtà, sanno già che prenderanno delle pallonate, anche pericolose.
Attivare un atteggiamento che consenta di andare verso le paure, continuare a guardare i propri mostri con consapevolezza, consente anche di iniziare a vederli per quello che sono: a volte non sono neanche mostri, ma solo semplici idee. Questo atteggiamento è un qualcosa che si impara un passo alla volta, e il primo è sicuramente quello di vedere il coraggio come risorsa da costruire e non una dote che si possiede o che manca.
La paura se affrontata si trasforma in coraggio, e ogni volta che si riesce ad evitare di evitare ecco che queste ferite diventano feritoie, finestre attraverso cui si può vedere un mondo di risorse che probabilmente prima non era possibile neanche immaginare. Prendiamo quindi questa festa come modo per esorcizzare i nostri mostri, ma anche per affrontarli davvero nella nostra vita. E’ semplice: vestiti da mostro è vai incontro alle tue piccole e grandi paure!
I nonni, lo sappiamo, rivestono un’importanza fondamentale per tante famiglie italiane, spesso infatti, i giovani che escono di casa scelgono di vivere fisicamente vicini ai propri genitori.
I motivi sono soprattutto organizzativi, in quanto i genitori, sovraccaricati di tanti impegni, possono godere del valido appoggio dei nonni; un tipo di aiuto pratico e concreto e se vogliamo dirla tutta anche un buon ammortizzatore economico.
Tutto ciò è accompagnato poi da un vero regalo che i nonni sanno dare: la sicurezza psicologica, i bambini sanno che su di loro possono farci conto. Questo lo vediamo in particolar modo quando la famiglia deve affrontare una separazione, ma non solo nella crisi, la presenza dei nonni dà, spesso, continuità e speranza ai bambini.
È vero che questo senso di accoglienza totale i nonni lo acquisiscono anche attraverso la concessione di qualche vizio, o per meglio dire, qualche deroga alle regole canoniche. I nonni concedono vizi, coccole e attenzioni che spesso non si ritrovano a casa. Ben venga! Ai nonni infatti, non spetta il compito educativo, spetta di fare, appunto, i nonni. Per tutto il resto ci sono mamma e papà.
Il risultato lo vediamo, spesso i bambini vanno volentieri dai nonni, sebbene questi non abbiano particolari risorse da offrire, a casa possono esserci più giochi, più spazio e più confort, ma ai bimbi piace andare dai nonni.
Lo stare insieme fa molto bene ai piccoli, ma ancora meglio ai nonni, soprattutto nei casi in cui questo rapporto speciale viene vissuto come una sorta di riscatto, per chi ad esempio è stato, a suo tempo, un genitore un po’ assente. Parlo soprattutto degli uomini, molto impegnati a livello professionale e quindi trascinati fuori dalle famiglie, ma anche vittime di una visione dell’uomo decisamente più maschio. Nel passato sembrava che l’uomo dovesse possedere per natura i caratteri di asprezza e durezza, tanto che una coccola era vista come un segnale di debolezza. Ora assistiamo gioiosamente alla scoperta del lato femminile e materno degli uomini, che hanno trovato come enorme risorsa di felicità un rapporto con i nipoti decisamente più vicino rispetto a quello avuto con i figli. Vediamo quindi nonni che portano passeggini, vanno all’asilo a prendere nipoti, poi al parco, insomma, trascorrono del buon tempo insieme.
Un rapporto bellissimo senza tempo, ma che mai come in questa epoca si caratterizza per una inversione di ruoli. I nipoti infatti, sono i nativi digitali, nascono e crescono circondati da internet e tecnologia. Succede quindi che i nipoti salgono in cattedra e insegnano ai nonni come si usa un tablet o uno smartphone. Sono bimbi che hanno grandi capacità simboliche, sanno pensare a livello virtuale già da molto piccoli, ma purtroppo spesso sanno usare poco il corpo. Azioni come lanciare un sasso per farlo rimbalzare sull’acqua, guadare un fiume, salire su un albero sono pressoché sconosciute o comunque difficoltose.
In una differenza generazionale notevole, in cui il nipote si fa promotore tecnologico, i nonni sono coloro che più di tutti hanno la possibilità di riportare il bambino alla concretezza della vita reale, facendo conoscere meglio il corpo, la materia prima.
Diventa quindi un rapporto caratterizzato da uno scambio intergenerazionale ricchissimo che sfocia in un legame di amore incondizionato.
In questo modo non sarà solo un piacere, ma una vera gioia lo stare insieme!
Si sa, Settembre è il mese della ripresa, del ritorno alla quotidianità a pieni ritmi lavorativi e scolastici. Con il vivo ricordo delle vacanze appena trascorse, proprio in questi giorni bambini e ragazzi riprendono le scuole: chi inizia un nuovo percorso, chi torna nella stessa aula. Tante sono le emozioni che ogni anno ci pervadono, settembre è infatti anche il mese dei buoni propositi e dei programmi futuri.
Nelle famiglie vediamo bambini sempre più impegnati in appuntamenti sportivi, ludici e religiosi, e mamme affaticate che talvolta si trovano a dover lottare contro il tempo per far giungere i loro figli ai vari incontri senza ritardare.
Conciliare tutto è complicato, eppure conosciamo sempre più frequentemente donne con famiglie numerose che non rinunciano alla carriera, e non solo, perché sono donne, in verità, impegnate in tanti aspetti: oltre alla famiglia e al lavoro coltivano passioni, partecipano alla vita collettiva, frequentano amiche.
Ma tutto ciò è davvero possibile senza rinunciare al ruolo genitoriale?
Tra un piccolo senso di colpa e una critica alla conoscente, tante donne (e mariti) si pongono questa difficile domanda. La risposta invece è semplice: sicuramente vanno effettuate delle scelte. Partendo dal presupposto che tutto si può fare, fondamentale è l’organizzazione. Con ciò intendo che l’organizzazione (quasi) perfetta esiste ed è legata all’ascolto delle esigenze sia della professione che della famiglia.
La tanto chiacchierata donna multitasking mamma, lavoratrice, moglie, cura la casa e se stessa, cucina, stira, fa la spesa all’Esselunga e trova, non si sa come, il tempo per un’oretta di jogging, due ore di shopping e un caffè con l’amica, esiste e non è lontana dalla realtà. Indubbiamente il multitasking è affrontabile, senza scomodare super poteri, ma lo è sicuramente di più se le relazioni che circondano la persona sono buone e si prova ad affrontare tutti i compiti insieme.
Da questo punto di vista la risorsa prima della donna che si trova in questa situazione è proprio da ricercare all’interno della famiglia stessa. In particolare la donna oltre a essere mamma non deve dimenticarsi di essere anche moglie o compagna, di conseguenza con un uomo o marito al suo fianco che possa aiutarla nel trovare l’energia e la “benzina” per affrontare nel migliore dei modi tutte queste diverse faccende da portare a termine.
Può sorgere in queste donne un senso di colpa. Bisogna gestirlo e affrontarlo.
Per farlo svanire è importante costruire un confine attorno a quello che è il sottoinsieme della famiglia composto da moglie-marito, in modo da poter trovare un porto sicuro, uno spazio proprio della coppia genitoriale dove potersi anche sfogare delle cose che non vanno senza intrusioni di suocere o figli, uno spazio bonificato abitato esclusivamente da mamma e papà. Se questa precondizione viene mantenuta, la squadra del papà e della mamma riesce ad affrontare tutto!
Noi psicologi siamo portati a dare come suggerimento alle coppie in consultazione di prendersi sempre uno spazio, anche una sera ogni tanto, durante il quale lasciare il proprio figlio a nonni o baby sitter e dedicarsi l’uno all’altra.
Le difficoltà che si incontrano di solito sono due: superati i disagi organizzativi e prenotata la nonna per la serata….come comunicare questa decisione ai figli?
È importante monitorare l’aspetto comunicativo con i figli e dimostrarsi disponibili a parlarne, quindi chiedere: “Senti ma tu cosa ne dici, saresti d’accordo…?”. Domandare sì, ma rimanendo fermi sulle decisioni, le quali sono regole che i genitori devono dettare e devono far sì che siano rispettate.
E il papà invece? Storicamente è più autorizzato a prendersi spazi, trascorre fuori casa più tempo rispetto alla mamma e si dedica maggiormente ai propri interessi.
Le cose, in realtà, stanno cambiando anche velocemente, in quanto spesso emerge la figura del papà un po’ mammo; lo dimostra ad esempio l’aumento del numero di papà che va a prendere il bimbo all’asilo.
Certo, l’uomo gode di una facilitazione culturale nel prendersi i propri spazi, ma deve essere egli stesso bravo nel mettersi in gioco in prima persona, svestire i panni di lavoratore, sportivo, amico, per rendersi conto che se investe maggior tempo nella qualità delle relazioni della famiglia, anche il modo di andare al lavoro sarà sicuramente più sereno e produttivo.
È quindi auspicabile un’alternanza di ruolo papà e mamma. E’ questo il vero multitasking!
Lo Psicologo, soprattutto nel passato, era una figura avvolta da fascino e mistero, tanto è vero che nell’immaginario collettivo era spesso identificato come il medico dei pazzi o come colui che fa sdraiare il paziente sul lettino chiedendogli di parlare dei suoi problemi e che legge nel pensiero.
Oggi, invece, se da un lato l’eco del passato non è ancora del tutto tramontato, dall’altro lato ci troviamo di fronte a un’apparente diffusione del sapere psicologico, in quanto spesso insegnanti, genitori, colleghi di lavoro, ecc… pensando di essere portavoce di qualche teoria o pratica psicologica, si pongono automaticamente dalla parte del “è giusto così”. Le motivazioni sono sicuramente diverse e spaziano dall’autoaffermazione, al fatto che è proprio la sempre più complessa realtà in cui viviamo a richiederlo.
Purtroppo, in una società in cui chiunque può comparire in tv parlando di inconscio, rimozione e comportamenti non verbali come se fossero la ricetta di una nuova torta, si va inesorabilmente a sminuire il carattere scientifico della Psicologia e di conseguenza la figura dello Psicologo. È quindi necessaria una corretta informazione a tutela sia della categoria professionale, ma anche del paziente che, se malinformato e in una situazione difficile, può mettersi nelle mani di chiunque, come ci dimostra la cronaca.
Lo psicologo è un professionista con competenze specialistiche, che utilizza un metodo scientifico e opera in diversi contesti.
L’art. 1 della Legge 56/89 definisce:
“La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.”
Per diventare Psicologo in Italia è necessario laurearsi in Psicologia, sostenere un Esame di Stato a seguito di un tirocinio post-lauream di un anno e iscriversi all’Albo professionale di una regione italiana. L’iscrizione è la condizione necessaria per poter lavorare ed esercitare l’attività. Sono abilitati all’esercizio dell’attività di Psicologo solo i professionisti iscritti all’Albo, a cui i cittadini possono fare riferimento per verificare se un professionista è abilitato. Gli eventuali casi di esercizio abusivo devono essere segnalati all’Ordine degli Psicologi.
In Italia operano 64 mila Psicologi.
Ma cosa fa lo Psicologo?
Lo psicologo è un professionista che opera per favorire il benessere delle persone, dei gruppi, degli organismi sociali e della comunità.
Si occupa di psicopatologia, ma non solo. Altre importanti aree di intervento riguardano una molteplicità di situazioni, personali e relazionali, che possono essere fonte di sofferenza e di disagio.
L’attività dello psicologo ha l’obiettivo di favorire il cambiamento, potenziare le risorse e accompagnare gli individui, le coppie, le famiglie, le organizzazioni (es. scuola, azienda, ecc.) in particolari momenti critici o di difficoltà.
Tra i molteplici ambiti di applicazione della psicologia si possono indicare gli ospedali, i consultori, le scuole, il tribunale, i servizi per l’infanzia e l’adolescenza, le comunità terapeutiche, le residenze per anziani. Nuovi settori sono quelli della psicologia penitenziaria, transculturale, della neuropsicologia, dell’emergenza, del traffico, dello sport e del benessere in senso lato.
L’agire dello psicologo deve essere sempre professionale e attento al rispetto dell’altro e dei suoi valori. Essere professionali per uno psicologo significa:
• avere solide basi teoriche, ma anche essere consapevole del proprio modello di riferimento e del proprio potere nella relazione con l’altro;
• non tentare di imporre il proprio sistema di valori e credenze, ma operare sempre nel rispetto dell’altro, tenendo conto dei suoi desideri, speranze e inclinazioni;
• non considerare mai terminata la propria formazione, ma essere disponibile ad apprendere mezzi e strumenti sempre nuovi e ad applicarli nel miglior interesse del paziente/utente;
• mantenere un atteggiamento di apertura mentale, di curiosità e reale interesse per l’altro e la sua sofferenza e avere la capacità di farsi stupire e mettersi in discussione.
Il luogo di elezione per l’intervento psicologico è la relazione, in tal senso l’incontro tra il paziente e il professionista non assume i toni di un’operazione diagnostica volta soltanto all’individuazione del disturbo o chiarificazione del problema, ma diviene occasione di riflessione e autoriflessione, in cui l’attenzione è rivolta alla persona e al contesto in cui è inserita.
Il fine ultimo è quello di promuovere l’autonomia del paziente e dunque la strada è quella di lavorare insieme a lui, e non al suo posto, alla ricerca di mondi possibili.
In questo senso, il ruolo dello psicologo viene spiegato da Milton Erickson, grandissimo ipnotista, attraverso un aneddoto, che era solito raccontare quando gli chiedevano “cosa facesse lo psicologo”.
Un giorno Erickson trovò, in un terreno di sua proprietà, un cavallo che pascolava. Questo cavallo non aveva nessun segno di riconoscimento, ma Erickson si offrì di riportarlo ai proprietari. Per fare ciò, salì semplicemente sul cavallo, lo condusse sulla strada, e lasciò che scegliesse da che parte voleva andare. Interveniva solo quando il cavallo lasciava la strada per pascolare o vagare in un campo.
Quando alla fine arrivò all’appezzamento del proprietario, diverse miglia giù per la strada, egli chiese a Erickson: “Come facevi a sapere che quel cavallo veniva da qui e che era nostro?”. Io non lo sapevo, rispose Erickson, ma il cavallo sì. Non ho fatto altro che mantenere la sua attenzione sulla strada”.
In questo aneddoto emerge l’idea dello stare insieme sulla stessa strada, che è un bel modo per descrivere il rapporto tra lo psicologo e chi ne chiede l’aiuto. È ovvio che tra compagni “di viaggio” ci si influenzi reciprocamente: lo psicologo dà un contributo che è parte del percorso di cambiamento, ma non più importante di quello che deve fornire in prima persona chi vuole cambiare.
Spesso la professione di psicologo comporta una serie di scelte e il dover affrontare dei dilemmi che il professionista si pone relativamente alla possibilità, alla correttezza e alla legittimità di determinate condotte. Le norme del Codice deontologico costituiscono una bussola che sostiene e orienta le scelte, che però sono influenzate anche dalle decisioni prese nella prassi lavorativa quotidiana.